La fine dell'autocritica

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Questa immagine, ma soprattutto questa didascalia, divide l'internet italiana in due parti, e sospetto che la divisione azzecchi l'età mentale meglio dei documenti anagrafici. Non saprei tracciare un discrimine (nati nel 1980? 1985?) ma da un certo punto in poi è un'immagine imbarazzante: Ritratto di regista boomer che non capisce dove va il cinema. Probabilmente i giovani non fanno nemmeno caso ai capelli bianchi, che erano il punctum della composizione: Moretti era arrivato a Cannes con la chioma nera di ordinanza, il contrasto sempre più insostenibile col grigio cenere della barba. Quando sei un personaggio pubblico a un certo punto devi fare questa cosa di ammettere che ti tingevi i capelli, per quanto al di fuori possa sembrare ridicolo per alcuni è più traumatico di un coming out. In una botta sola devi ammettere che sei vecchio e che cercavi di nasconderlo. Se poi quasi nessuno ci fa caso è peggio ancora, significa che loro ti vedevano già vecchio: sei tu che ti aggrappavi al tuo autoritratto mentale, gli altri le tue rughe le danno per scontate, le vedono anche nei film dove ancora non le avevi. 

Pochi giorni prima

Per quelli nati prima del discrimine, questo è il caro vecchio Moretti che si prende in giro da solo, con quella spietatezza che negli ultimi film si è un po' attenuata (ma solo un po'). È il Moretti-regista-isterico di Sogni d'oro (ma anche di Mia madre), quello che vuole vincere a costo di rendersi ridicolo, e che non vuole morire. Più del Moretti che non si capacita del successo di Henry, pioggia di sangue, è quello che si fa una canna davanti alla tv mentre Berlusconi trionfa. Certo che è patetico, ma lo fa apposta. Al che i più giovani possono ovviamente rispondere: certo che lo fa apposta, ma è patetico, e il discrimine è tutto qui. 

Per i vecchi quel che importa è l'intenzione; per i giovani il risultato. Moretti non ha fatto tantissimi film, così che non capita poi così spesso l'esperienza rivelatoria di riguardarli per caso senza averne l'intenzione: quella situazione in cui ogni volta mi stupisco di quanto era perfido con sé stesso e con il sociotipo che interpretava. Moretti picchiava sua madre, spintonava il padre, stalkerava sue ex, scenate dappertutto. Questa perfidia era un valore in sé, ma se i giovani non la capiscono forse il suo cinema in breve non interesserà più a nessuno. Questo mi dispiace più di altre cose, e sento che sto per rimettermi a parlare di Woody Allen, scusatemi. 


Woody Allen di film ne ha fatti molti di più, diciamo anche troppi di più, diciamo che anche se gli impedissero di farne altri non sarebbe una catastrofe culturale; la vera catastrofe culturale è che non sono più in grado di apprezzare quelli vecchi. Prendono Manhattan per una prova indiziaria, non è che non capiscano che Allen in un film del genere stava denunciando sé stesso e i suoi simili, ma ne approfittano, Allen si autoaccusa e loro si autonominano giudici e lo condannano. Ammettiamo che nei trent'anni dell'abbondanza era diventato a un certo punto un topos prendere in giro la figura del borghese intellettuale sempre sull'orlo della crisi di nervi, ormai una maschera di una postmoderna commedia dell'arte. Poi a un certo punto cambia il paradigma, all'improvviso e con una certa violenza: chi ancora indugiava nel topos autocritico (ad esempio Louis CK) viene stritolato da un meccanismo che si rivela molto più spietato di lui. Si è all'improvviso convocato un nuovo tribunale e ci si rende conto che tutto questo autocriticarsi non funzionerà come attenuante, anzi, tutti questi artisti non hanno fatto che facilitare il lavoro ai nuovi accusatori. Woody Allen, ci spiegano, è ossessionato dal sesso, e dalle giovinette. Certo, rispondiamo, Allen non fa che esprimere in modo grottesco queste ossessioni che sono comuni a tutti, ehm, noi: ma a questo punto gli accusatori alzano un sopracciglio e noi siamo nei guai. Meglio cominciare a scrivere che Allen ha fatto il suo tempo, forse qualche giovinetta tornerà a metterci un like. 

Com'è successa questa cosa, di chi è la colpa. Siete seduti? Perché sto per dare la colpa a internet, ai social network, ebbene sì, sto invecchiando molto più rapidamente di Moretti. Ma mi ricordo che fino a un certo punto anche su questo blog trovavo normalissimo esprimere le mie frustrazioni, la percezione del mio essere ridicolo, i miei guai e le mie colpe, e cosa cercavo? Se non assoluzioni, certo attenuanti da un giudice bonario che al di là di tutto il materiale probante avrebbe valutato le mie intenzioni. Un approccio, starei per dire, molto cattolico: non fosse che né Allen né Moretti mi sembrano particolarmente cattolici. Comunque a un certo punto ho dovuto smetterla: non potevo più mettere in mostra le mie debolezze perché c'era gente cattiva lì fuori che le avrebbe riprese, linkate, taggate, esagerate, additate, e vi giuro questa gente esiste davvero, non me la sogno, magari saranno appena una manciata di persone ma sono fastidiosi come zanzare e per evitarle ho smesso di denudarmi in pubblico. È stato un processo graduale, non saprei neanche dire quando è iniziato, fatto sta che mi sono costruito questa specie di Io pubblico che magari è pessimista ma non si dispera mai, non piange mai, non ti racconta più i suoi traumi infantili e quanto era patetico da adolescente – tutto questo fino a metà '00 si poteva fare, ora ti prenderebbero per pazzo, non c'è più nessuna gloria nel sapersi mettere in berlina. Ora devi imparare a sanguinare per i fatti tuoi, con tutti gli squali in giro. È un mondo diverso. Ipocrita in un modo diverso. Forse preferivo l'ipocrisia di Moretti che cercava la nostra simpatia comportandosi in modo insopportabile. Era paradossale, probabilmente preferisco i paradossi. 

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Chi ha cancellato i cancellatori di Woody Allen

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Al termine di una settimana – non questa, la precedente – che la mia bolla sociale ha trascorso a discutere sulla Cancel Culture, e in particolare se esista o no (cioè non ne siamo ancora sicuri), domenica scorsa è apparso da Fazio nientemeno che Woody Allen, in carne e ossa e videochiamata, e... non è successo niente. 


Ma proprio niente, mi sembra che non ne abbia parlato nessuno. E stiamo parlando di Woody Allen, ovvero non solo uno dei registi americani più conosciuti e affermati in Italia, ma anche del caso più esemplare di questa benedetta Cancel Culture, tanto da essere citato credo in qualsiasi articolo che ne parli e che cerchi di spiegare cos'è (questo è l'ultimo che ho trovato). Woody Allen che malgrado il suo prestigio negli USA non è ancora riuscito a trovare un distributore per il suo ultimo film – forse proprio a causa della Cancel Culture. Woody Allen la cui autobiografia è uscita prima in Italia che negli USA, dove un editore addirittura ha rinunciato a pubblicarla a causa delle proteste degli stessi dipendenti. Woody Allen che tuttora è accusato da sua figlia di molestie, e a cui molte attiviste e attivisti non perdonano la relazione con la figlia (adulta) dell'ex compagna. Woody Allen che è talmente al centro del dibattito che la stessa Scarlett Johansson, nelle stesse ore, mentre accusava l'organizzazione che assegna i Golden Globe di pratiche discutibili ai limiti dell'abuso, è stata criticata da molti guerrieri social per avere lei stessa in passato difeso Woody Allen. Woody Allen insomma di cui sembra impossibile poter parlare senza accennare a tutto il dibattito sulla Cancellazione, e invece in Italia domenica scorsa ci siamo riusciti, grazie a Fazio, grazie alla Rai: abbiamo cancellato la Cancel Culture. È una cosa buona, è una cosa sbagliata? Non lo so. È comunque una cosa interessante, ne vorrei parlare.


Immagino che la richiesta di non toccare nemmeno di sguincio l'argomento sia arrivato dal management di Allen. Se una richiesta del genere fosse stata fatta a una redazione giornalistica, il caso si porrebbe. Può un giornalista accettare di intervistare un personaggio senza toccare un argomento così importante – diciamo pure l'unico argomento relativo ad Allen che ormai può interessare a uno spettatore sotto i quarant'anni? Può farlo senza venir meno alla sua etica professionale e senza perdere la faccia? Secondo me no. Fazio infatti non è un giornalista, o per lo meno non ha mai tentato di accreditarsi come tale. Fa promozione culturale, mettiamola così, e dopo tanti anni sappiamo anche come funziona e cosa produce. Si selezionano prodotti quasi sempre già rinomati, già ormai ridottisi in feticci, e li si usa per arredare il salotto ideale di un ceto medio riflessivo che vuole sentirsi culturalmente aggiornato, prima di ridacchiare per le battutacce della Littizzetto. Anni fa mi permettevo di prenderlo un po' in giro per la sua gerontofilia, la sua tendenza a circondarsi di vecchi nonni saggi: dopodiché è invecchiato pure lui, siamo invecchiati tutti – Allen un po' prima degli altri e Fazio domenica non vedeva l'ora di incorniciarlo nella posa dell'amabile vecchietto che non sa usare il tablet e nemmeno il telecomando.

L'intervista non si è scostata da un canovaccio che Allen ha perfezionato da decenni: tutti gli danno del genio, lui si schermisce, tutti gli danno del falso modesto, lui continua a schermirsi (incidentalmente, è la stessa strategia che adopererebbe un mostro criminale, un Kaiser Soze). La sua autobiografia, se gli avete dato un'occhiata, è un'interminabile rivendicazione di mediocrità che alla fine si trasforma in una specie di autodifesa: sono una persona qualunque molto fortunata, continua a dirci, e le persone qualunque non fanno le cose orribili che ad Allen sono state attribuite.


 

Per una scenetta del genere, Fazio era la spalla ideale: nessuno più di lui sa sintonizzarsi sulla falsa modestia dei suoi Grandi Vecchi. Lo fa benissimo perché ci crede: Fazio era sinceramente orgoglioso di intervistare Woody Allen in quanto monumento di una generazione, e del tutto indifferente al fatto che un'altra generazione lo consideri un mostro. È una generazione che non guarda la tv, quindi perché preoccuparsi. 

Viene il sospetto che il problema sia tutto generazionale: la Cancel Culture esiste soltanto da una certa classe in poi. Per i nati prima del 1970, azzardo, il caso Dylan-Farrow è un fatto di cronaca di più di vent'anni fa. Per i nati dopo il 1980 è l'unica cosa interessante, benché mostruosa, che il tizio abbia fatto. Io sto in mezzo a queste due generazioni che vorrei definire l'una contro l'altra armate, ma non è vero: ormai non si frequentano più, e le rare volte che si parlano non si capiscono. Per chi ha amato almeno qualche film di Allen, il tiro al piccione su Twitter è un'esperienza mortificante: la maggior parte di chi getta sassi, si capisce, non ne ha mai visto uno. Alcuni lo ammettono pure. Vien da pensare che un certo tipo di attivismo sia un modo economico di risolvere l'aggiornamento culturale: il tizio ha girato più di 40 film, se vuoi parlarne senza perderti i riferimenti dovresti averne visti almeno una metà. Se invece decidi che il tizio è un mostro, puoi sparare immediatamente il tuo giudizio tranciante e ti resta anche tutto il pomeriggio libero per guardarti una serie. Non è che il contrappasso non abbia una sua logica: Woody Allen per tanti anni ha potuto contare sulla benevolenza di un pubblico e di una critica pronti a degustare qualsiasi suo prodotto come un'eccellenza artistica. Nel frattempo è cresciuta una generazione che le rare volte che prova a guardarne uno, non capisce cosa ci sia di divertente e/o tragico. Lui d'altro canto ha sempre detto che il giudizio dei posteri non lo interessava, anche se forse non immaginava che i posteri piuttosto di perder tempo a capire e contestualizzare avrebbero scambiato Manhattan per un'apologia della pedofilia. 

Quindi alla fine questa Cancel Culture esiste o no? Non saprei. Di sicuro esiste una generazione che non ha timori reverenziali per i feticci del passato – il che è un bene – ma che tende a confondere questa naturale irruenza con un dispositivo morale. Col risultato che molte cose che comunque starebbero per finire nel dimenticatoio rimbalzano un po' più in là, nell'Indice dei Manufatti Culturali Proibiti e Quindi Interessanti. Un posto dove le generazioni successive potrebbero più facimente riuscire a recuperarli... e allora, se mi piace il cinema di Woody Allen, chi devo temere di più? Il mellifluo Fazio che troverebbe geniale anche un suo assolo jazz di peti con le ascelle, o i giovani aspiranti inquisitori che non sopportano la vista di un quarantenne a letto con una diciassettenne? Quale dei due atteggiamenti, nel medio-lungo termine, consentirà ai lungometraggi di Woody Allen di rimanere culturalmente rilevanti, anche se invece di trovarli su Netflix dovremo cercarli su Pornhub? 

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Così è Dylan Farrow (se vi pare)

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E insomma anche l'altro giorno qualcuno ha segnalato a Gramellini una notizia relativa all'ennesimo episodio di Cancel culture (stavolta era Oxford contro Mozart), Gramellini non ha ritenuto troppo necessario verificarla, ci ha scritto il suo compitino e dieci minuti dopo averlo pubblicato sapevamo già che non era vero niente, Oxford non vuole cancellare Mozart. Così è più o meno nel 90% dei casi in cui qualcuno vi parla di Cancel culture (o di dittatura del politically correct, che è la stessa cosa scritta più in lungo per sembrare più minacciosa, oltre che probabilmente li pagano a battuta). 


Al punto che viene il sospetto: ma questa cosa esiste, al di fuori della parodia che ne fanno i sedicenti oppositori? È un fenomeno di una qualche rilevanza, qualcosa degno di essere studiato? Una possibile risposta era già disponibile da qualche ora: la CBS ha tirato fuori dagli archivi un'intervista a Woody Allen rilasciata l'estate scorsa, che è diventata abbastanza interessante soltanto dopo che la HBO ha trasmesso una miniserie di quattro episodi sul caso Allen-Farrow. La miniserie non si fa scrupolo nell'abbracciare la versione di Mia e Dylan Farrow, secondo le quali Woody Allen avrebbe abusato di quest'ultima quando aveva sette anni. Questo, se ci fermiamo a riflettere, è abbastanza clamoroso, e indicativo di un clima culturale realmente diverso dal nostro: per quanto tentiamo di mantenerci aggiornati, non credo che nessun canale in Italia trasmetterebbe per quattro domeniche in prima serata una ricostruzione di un abuso su un minore che non è mai stato appurato da nessun'indagine, né formalizzato in nessuna sentenza. Questa versione è particolarmente scabrosa e infamante per Woody Allen, che negli ultimi anni è stato oggettivamente danneggiato dalla polvere risollevata intorno a un caso archiviato vent'anni fa: ha perso un contratto con Amazon, la Hachette si è rifiutata di distribuire la sua biografia negli USA (in seguito a uno sciopero dei dipendenti!), molti attori rifiutano di lavorare per lui. E tuttavia Allen ha avuto lo spazio mediatico che gli serviva per ribadire la sua verità. Dunque questa Cancel culture esiste o no?

Probabilmente sì – e abbiamo anche qualche argomento per trovarla inquietante – a patto di accettare che non si tratta di una "dittatura": piuttosto di una guerra culturale. Il che spiega anche alcuni tratti dittatoriali: la guerra è uno stato emergenziale, molte cose non tollerabili in tempo di pace sono considerate inevitabili. Nessun tribunale in tempo di pace trovò Allen colpevole di molestie sulla figlia (addirittura ce ne fu uno che gli consentì di adottare due bambini), ma negli USA adesso c'è la guerra e ci sono obiettivi di fronte ai quali la rispettabilità di un anziano cineasta scompare – in particolare, c'è da salvare un saliente cruciale: il principio di credibilità della donna-vittima. 

In guerra non si va per il sottile e non ci si preoccupa di portare i bambini in prima linea, se sono utili. Il fulcro della miniserie HBO è il video girato da Mia Farrow in cui la piccola Dylan ripete alla madre le accuse nei confronti del padre. Il video – che secondo Mia Farrow era destinato a uno psicologo – non era mai stato mostrato in tv: eppure già nel 1992, tempo di pace, era stato offerto a un network che non l'aveva considerato divulgabile. Ma oggi siamo in guerra, e in guerra tutto è concesso: così gli spettatori USA hanno potuto vedere un video che non aggiunge nulla alle accuse già dette e ribadite, salvo il fattore emotivo di vederle pronunciate da una bambina di sette anni.


Il caso Allen-Farrow esisteva prima di questa battaglia (e temo che esisterà anche dopo: in fondo c'è ancora chi discute del capitano Dreyfus). Fa parte del paesaggio, ormai, e se fosse un paesaggio vero sarebbe un canyon strettissimo, dove all'imboccatura c'è spazio per almeno due versioni dei fatti ma se vuoi uscirne dovrai abbandonarne per forza una. Non c'è spazio per Pirandello qui, per un minimo di relativismo esistenziale ed è un peccato: nella cultura americana ci sono tante cose che è giusto invidiare, ma un Pirandello no e certe volte la mancanza si sente (forse con D.F. Wallace ci stavamo arrivando). Non c'è nessun cognato Laudisi sul palco ad additarci l'impossibilità di conoscere gli altri: c'è un abuso genitoriale, ci sono soltanto due possibili colpevoli e uno dei due la sta facendo franca, il che al pubblico USA deve risultare insopportabile. Dylan Farrow potrebbe essere stata abusata da Woody Allen, e per molti è conveniente che sia così. Perché altrimenti non resta che un'opzione, ovvero che sia stata abusata dalla madre, che l'ha convinta della sua verità e l'ha costretta a interpretarla da quando aveva sette anni a... potremmo dire che non ha mai smesso, ma è più complicato di così. Da molto tempo non si tratta soltanto di salvare la reputazione di Mia Farrow. Ormai c'è un esercito dietro, o perlomeno un battaglione che di qui doveva passare per forza e non può ritirarsi. Dylan Farrow non può cedere, anzi: è previsto che ribadisca per sempre che è stata vittima del padre; le sarà richiesto ancora per diversi anni di tornare sull'episodio. Ormai è vittima anche nel senso sacrificale del termine. Anche se non fosse un Enrico IV ormai prigioniero della sua finzione, anche se tutto fosse andato esattamente come lo raccontava la bambina alla mamma, a questo punto alla bambina dovrebbe essere consentito voltar pagina: a lei no, finché il padre non confessa: e siccome il padre non ne ha la minima intenzione, Dylan dovrà continuare ad accusarlo. Qualsiasi psicoterapeuta, in tempo di pace, farebbe presente che qui si sta sbagliando tutto: e in effetti se si trattasse di un semplice caso di abuso, questo sarebbe il peggior modo di gestirlo. Ma non è mai stato un semplice caso di abuso e ormai è proprio diventato tutt'altro.


"La cancel culture [scrivevo] si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l'oggettiva incidenza di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede". Credo che lo si veda bene ad esempio in questo pezzo di Indiewire, dove la questione se Allen sia colpevole è definitivamente messa da parte. Quel che secondo l'autore dovrebbe interessare davvero ai lettori è: come mai la sua carriera non è ancora finita? Dopo tutto quello che gli hanno puntato contro, com'è possibile che stia continuando a lavorare? (Si sente, nel pezzo, l'angoscia dei graduati verso un nemico che secondo tutti i piani avrebbe dovuto ripiegare e invece è ancora lì, sui suoi pezzi: neanche contro questo rottame riusciamo a spuntarla?) In effetti con Spacey è praticamente bastato che un tizio si ricordasse di un episodio a una festa e puf, Spacey è stato letteralmente cancellato da un film già girato, e assassinato nella serie in cui faceva il presidente. L'errore probabilmente è stato pensare che Allen fosse attaccabile come uno Spacey o qualsiasi altra celebrità hollywoodiana – è il solito errore, alla fine: confondere gli USA con il mondo. Allen è senz'altro americano per nazionalità e cultura, ma dal punto di vista produttivo e culturale è ormai completamente alieno: in quarant'anni di carriera si è pazientemente costruito una nicchia autosufficiente che tutto sommato sembra reggere anche agli ultimi bombardamenti. Prima o poi dovrà cedere, se non al nemico, all'età: e a quel punto qualcuno potrà puntare una bandiera, annunciare che la missione è compiuta e passare oltre. Vien quasi da augurarselo: son tanto faticose le guerre.

[Il pezzo finisce così e non ho nemmeno fatto in tempo ad accennare al tema più interessante, ovvero lo slittamento tra pedofilia e pederastia – il modo in cui viene usata, per rafforzare le accuse contro Allen, la sua nota e vantata frequentazione di ragazze molto giovani, benché nell'età del consenso. Lo choc culturale per cui la relazione verticale descritta in Manhattan (un quarantenne con una 17enne), che in quegli anni sembrava socialmente accettabile, oggi viene equiparata senza mezzi termini a uno stupro e  considerata un forte indizio a favore di un altro abuso commesso nei confronti di una bambina di 7 anni – in sostanza negli anni '70 una 17enne era praticamente adulta, oggi invece non ci sarebbe differenza tra uscire con lei e con un'alunna della seconda elementare. Magari un altra volta se ho tempo e faccio un altro mestiere].

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L'arte dei mostri è l'unica interessante

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Non è cominciato tutto con Weinstein. Ho vaghi ricordi di discussioni precedenti – per esempio quando Bill Cosby fu processato per violenza sessuale devo aver sentito qualcuno lamentarsi del fatto che non sarebbe più riuscito a guardare un episodio dei Robinson. Lì per lì non devo aver prestato molta attenzione alla cosa (anche perché, insomma, oggi dove li trovi gli episodi dei Robinson?), ma è stata la prima volta che ho fatto caso al fenomeno.

Quando usciva un film di Woody Allen mi imbattevo regolarmente in qualcuno che, tra tanti motivi per non andarli a vedere, tirava fuori quella triste accusa di molestie alla figlia. Pensavo fosse una forma un po’ stravagante di boicottaggio. Ma poi è scoppiato lo scandalo Weinstein e mi sono reso conto che molte persone intorno a me non sembrano riconoscere la differenza tra contenuto dell’opera e vissuto dell’artista – no, in realtà è più sottile di così. Non è che non la riconoscono: chiunque sa riconoscere la differenza, poniamo, tra Adolf Hitler e uno dei suoi mediocri paesaggi. È che non la vogliono riconoscere. Carino quel paesaggio, di chi è? Di Adolf Hitler? Ah, allora è orribile.



(Ho scritto un pezzo su TheVision che parla di Woody Allen, Dostoevskij, e di quanto Leni Riefenstahl fosse una schiappa a girare i film).

Esagero? Leggo di gente che apprezzava molto l’umorismo di Louis CK, le sue gag sulla masturbazione seriale. Poi scoprono che Louis CK si masturbava davanti a delle sottoposte e all’improvviso le stesse gag non sono più divertenti. Fioriscono sul web mille domande, che all’inizio credevo retoriche, e invece no: possiamo ancora guardare i film con Kevin Spacey? E i film prodotti da Weinstein? Quando Lasseter ha ammesso di aver commesso qualche errore e si è preso una pausa alla Disney, qualcuno ha iniziato a domandarsi se possiamo ancora guardare Toy Story. Ok, sono solo titoli esagerati per attirare l’attenzione. Ma nel frattempo Jonathan Franzen ammette candidamente di avere delle difficoltà ad ammirare i quadri di Caravaggio, perché sai, “ha ucciso un uomo”. La scrittrice Claire Dederer si domanda “cosa fare dell’arte degli uomini mostruosi” – nel suo elenco troviamo Polanski, Cosby, Burroughs, Wagner, Caravaggio… ma il mostro dei mostri è sempre lui, Woody Allen. La Dederer non ha nemmeno bisogno di credere alle accuse di Dylan Farrow: la relazione con Soon-Yi è più che sufficiente a formulare un giudizio di mostruosità. “Era una teenager affidata a lui la prima volta che andarono a letto assieme, e lui il più famoso regista del mondo”! Puoi apprezzare ancora Manhattan, dopo avere scoperto una cosa del genere?

Lei dice di no, ma in questo caso effettivamente i confini tra autore e opera sono più ambigui che altrove: un film in cui un quarantenne trova assolutamente normale scoparsi una liceale, girato da un grande regista che qualche anno dopo si è messo con una 17enne. Siamo di nuovo di fronte al paradosso di Louise CK? Ovvero: un film che parla di desideri e pulsioni diventa discutibile quando scopri che è autobiografico? Gli interlocutori della Dederer (maschi) si oppongono con affermazioni ridicolmente parnassiane: ribadiscono piccati la necessità di giudicare l’opera d’arte soltanto in base ai criteri estetici, e quando affermano di apprezzare in Manhattan “l’equilibrio e l’eleganza”, il lettore ha il sospetto che direbbero la stessa cosa di Olympia di Leni Riefenstahl (l’elegantissimo, ben equilibrato inno ai successi olimpici del Terzo Reich).

In effetti di fronte all’ammissione di Franzen, o ai dubbi della Dederer, è molto facile reagire in modo categorico, magari accatastando un bell’elenco di artisti con la fedina penale complicata (in queste liste Caravaggio non manca mai). Stavo cominciando anch’io, ma mi sono bloccato al primo nome – chissà perché, mi è venuto in mente Dostoevskij. Ma mentre mi fermavo a controllare la grafia esatta, mi sono reso conto che stavo confondendo Dostoevskij coi suoi personaggi: con l’assassino di vecchiette Raskolnikov, con lo stupratore di bambine Stavrogin. Forse perché li ho letti quand’ero troppo giovane e quel famoso esercizio di separare l’autore dall’opera non riusciva neanche a me. Ammesso che mi sia riuscito in seguito. I quegli anni io cercavo nei libri le cose che non avevo la possibilità o il coraggio di vivere in prima persona, ed erano perlopiù cose criminose: leggevo Christiane F perché pur non avendo l’inclinazione per la dipendenza l’eroina mi sarebbe piaciuto vedere com’era da dentro; leggevo Il giovane Holden perché mi sarebbe piaciuto ogni tanto mandare al diavolo scuola e famiglia, ma non ne avevo il coraggio; e Dostoevskij, appunto, mi forniva un prezioso succedaneo ogni volta che mi veniva voglia di ammazzare una vecchietta ricca e improduttiva. Non credo di essere stato l’unico a cercare nella letteratura e nell’arte una forma di turismo nelle perversioni che non avevo i soldi o il fegato di permettermi. Ero un ragazzino.

Se avessi potuto da ragazzino rispondere a Franzen, gli avrei detto qualcosa di insopportabilmente arrogante, del tipo: io se l’artista non è un assassino non mi scomodo neanche a dargli un’occhiata. E alla Dederer: guarda per me Manhattan è molto meglio adesso che so che a Woody Allen piacciono le ragazzine – non che ci fossero molti dubbi prima, eh? – ma non lo trovi anche tu molto più genuino, ora, più sincero? E se ti fa incazzare, ok: non è mica un paesaggio, non è una natura morta, è un film di Woody Allen. Arte moderna, quella che a volte può essere equilibrata ed elegante, ma il più delle volte è disarmonica e dissonante e ci puoi anche litigare. Cioè, non ci vai mai al cinema a litigare col regista, con gli attori, con gli scenografi? È uno dei piaceri della vita e del cinema, io in mancanza di meglio me la prendo anche col direttore della fotografia. Insomma alla domanda cosa facciamo dell’arte degli uomini mostruosi, il me stesso ragazzino risponderebbe: facciamo un gran casino! Li stronchiamo tutti senza pietà, anche se sono bravissimi, chissenefrega (sei una frana con la macchina da presa, Leni). Lo scopo dell’arte è stimolarci; se certa roba ci stimola rabbia e indignazione, prendiamo la nostra rabbia e trasformiamola in una meravigliosa stroncatura che farà incazzare a sua volta qualcun altro eccetera – insomma, ero un coglione, ero arrogante, ero ignorante, ma avevo già chiara internet in testa.

Oggi non la penso più così, ma forse non sono molto più sgamato di quelli che non riescono più a vedere una sit-com con Bill Cosby. Forse anch’io non sono così bravo a separare l’opera dallo scrittore, dopotutto, se continuo a preferire gli artisti e gli scrittori che hanno qualcosa da rimproverarsi. Quel che mi piace di Franzen è il modo in cui fa oscillare i suoi personaggi davanti a un abisso morale prima di dare una spintarella: lo fa con l’aria di chi c’è stato lì sul bordo, di chi sa benissimo cosa si prova. In un angolo della mia testa non ho smesso di pensare che Dostoevskij abbia davvero ammazzato una vecchietta, e anche Franzen secondo me deve aver fatto qualcosa di inconfessabile. Persino Woody Allen, che tante volte ha messo in pellicola lo stesso canovaccio: un uomo di successo è ricattato da qualcuno che minaccia di rivelare qualcosa di torbido sul suo passato, finché non decide di ucciderlo. A quel punto lo spettatore si aspetta una giusta punizione che (spoiler) quasi sempre le sceneggiature di Allen non prevedono: l’assassino salva il suo buon nome e il suo status. Crimini e misfatti è del 1989, Match Point (il più dostoevskjiano dei suoi film) del 2005, Irrational Man del 2015: come se Allen volesse dirci qualcosa.

Un altro film di Woody Allen a cui non saprei rinunciare nemmeno se Allen invadesse la Polonia è Pallottole su Broadway. Racconta la storia di David Shayn, un tizio che si crede un artista, un commediografo, ma a un certo punto si accorge che non lo è. Se ne accorge perché incontra un artista puro, Cheech, un talento naturale che ha la sfortuna di essere cresciuto in una gang criminale. Non solo è più bravo di lui a scrivere dialoghi, ma soprattutto non è disposto ad accettare compromessi: per salvare la sua opera è disposto a uccidere. David no. Il momento in cui si accorge di non essere un vero artista è il momento in cui capisce di non essere un criminale.
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Woody torna a Hollywood, Woody torna a NY

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Café Society (Woody Allen, 2016)

Non importa se nel frattempo ti sei scavato il tuo buco in questo mondo: quante mani stringi, quante persone conosci, quanti ti devono un favore. Lì su un divano c'è il tuo primo amore, per quanto hai scavato è riuscito a snidarti. Vuole controllare che stai bene, vuole mostrarti che sta meglio. Chiacchiera di cose che non ti interessano, cose che non ritenevi dovessero interessarle: cose che comunque non avresti potuto permetterti, tutte queste cose teoricamente inutili che ormai stanno tra te e lei. Spalanca una finestra su quel teatrino che avevi messo insieme con due ricordi, quella farsa che chiamavi il passato trascorso assieme: non è trascorso davvero, non eravate realmente assieme: ogni discorso era un equivoco in attesa di una terza, o una quarta persona. Rimane solo un gran vuoto, ogni tanto qualcuno ti avvertirà che lo stai fissando.

Per molto tempo Woody Allen e Hollywood ci sono sembrati due universi lontani, in qualche modo complementari. Poi lentamente qualcosa è cambiato, qualcosa è collassato, e WA si è scoperto un classico. Un comico che aveva cominciato a confezionare film per aggirare le autocensure dei network televisivi, che li girava sghembi e irregolari, senza vergognarsi di prendere in prestito stilemi e soluzioni dai suoi maestri più o meno dichiarati, anno dopo anno, film dopo film, si è ritrovato padrone di un locale in cui era entrato da fattorino, depositario di un enorme repertorio di cose che nessuno viene più a ritirare. Tanta roba di ottima fattura ma un po' fuori moda: lo swing, i telefoni bianchi, perché no; quelle roboanti voci fuori campo del cinema di una volta, quelle sceneggiature squillanti in cui i personaggi fumano come ciminiere, bevono come spugne, dicono tutto quello che gli passa per la testa, compreso "muoio per amore" al primo tizio che ti presentano a una festa - quelle cose che succedevano in quei vecchi film che forse non abbiamo mai visto, ma ormai ce li immaginiamo simili a quelli in costume di Woody Allen.

Cafè Society questa settimana è il film proiettato in più sale, anche nella provincia di Cuneo - se la gioca con la pesciolina Dory - del resto lo abbiamo visto, ormai il marchio Woody Allen è una specie di Walt Disney per la terza età. La gente non va a vedere molti film, ma i suoi sì. Non è un film particolarmente divertente, non è nemmeno una tragedia: è il tipico film del tardo WA. Un cast notevole, costumi stupendi, fotografia pazzesca - in un certo senso è più un film di Storaro che di Allen, luci e inquadrature sembrano più importanti delle chiacchiere pure interminabili dei personaggi. La trama è più evanescente del solito e questo è forse un vantaggio, rispetto agli ultimi anni di canovacci un po' scontati: come se volendo evitare la solita storia, si fosse ritrovato quasi senza storia da raccontare. Siccome i fratelli Dorfman sono una coppia classica del cinema alleniano - il gagster e il giovane innocente di belle speranze - per buona parte del film ti aspetti una svolta tragica che invece, sorpresa! non avviene. Qualcuno viene effettivamente ucciso e nascosto, ma per futilissimi motivi, quasi non se ne possa fare a meno: c'è una pistola sul set, usiamola.

Forse una relativa novità sta nell'idea di mostrare un triangolo sentimentale dal punto di vista del giovane infelice. Sappiamo che per Allen le ragazze sono naturalmente attratte da uomini col doppio dei loro anni: non necessariamente ricchi o potenti (ma aiuta), senz'altro più saggi e colti (continua su +eventi!). Un tipo preciso di relazione da sempre vista con sospetto nelle commedie sentimentali e quasi del tutto rimossa da quelle di ultima generazione, che per WA è una specie di condizione di natura, indiscutibile, al punto che nel film dell'anno scorso la studentessa Emma Stone non aveva nessuna difficoltà a scambiare effusioni col suo professore Joaquin Phoenix sul prato della facoltà - sono quelle piccole cose che ricordano allo spettatore che siamo nel mondo di Allen, un mondo dove un cinquantenne troverà sempre una ventenne disposta a impazzire per lui. 

Poi le cose non vanno sempre a finire nel migliore dei modi, ma forse è la prima volta che Allen sceglie di mostrarci la storia dal punto di vista opposto al suo: il ragazzo giovane che viene scaricato perché l'uomo ricco e potente (Steve Carell), per una volta, ha deciso che lascia davvero la moglie per la segretaria. È una piccola rivoluzione copernicana, ma forse è anche il motivo per cui il film gira un po' a vuoto, malgrado Jesse Eisenberg sia quel tipo di attore che sembra nato per recitare film di Allen. Si capisce che il regista vorrebbe dare al suo personaggio un po' di profondità - gli regala anche un siparietto divertente con una ragazza squillo che ai fini dello sviluppo della trama non ha molto senso - e però fino alla fine questo giovane Dorfman resterà poco più che una silhouette, uno che prende continuamente le distanze dalla superficialità e dal cinismo hollywoodiani salvo andare a infilarsi in un posto altrettanto superficiale e cinico come un nightclub newyorchese. Come se WA, dopo aver deciso di mettere in scena l'educazione sentimentale di un giovane, si fosse distratto - tanto che le battute migliori stanno in bocca ad attori attempati e riguardano, come al solito, la morte ("vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, e un giorno o l'altro ci azzeccherai"). Partito con l'idea di raccontare le illusioni perdute della gioventù, WA sembra davvero ritrovarsi soltanto davanti a quell'ingrigito padre ebreo che senza alzarsi da letto lancia la sua sfida alla morte: me ne andrò, ma non staro zitto. "Protesterò"; e a quella moglie in vestaglia che gli risponde: protesterai con chi, protesterai di cosa?

Infine c'è Kristen Stewart, che con Eisenberg recita spesso e si trova bene - anche se neanche con lui sembra mai davvero a suo agio - coi suoi broncetti imbarazzati che contagiano lo spettatore e lo lasciano sempre interdetto - è brava a sembrare imbarazzante, o è imbarazzante e basta? Quando è sulla spiaggia col fidanzato giovane, e i raggi dell'amore si velano all'improvviso dell'ombra del rimpianto che Kristen sottolinea trattenendo a stento il fiato come a reprimere un rutto: cattiva recitazione o colpo di genio? Perché a volte le ragazze fanno davvero così, io le ho viste. Credo. È passato del tempo. Non sono più la stessa persona. Vivo in un'altra città, faccio un altro lavoro, tutti mi salutano l'unica cosa che mi è rimasta è che vado ancora a vedere i film di Woody Allen - oggi al Citiplex di Alba (17:00, 19:00, 21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:20, 17:40, 20:20, 22:30), al Vittoria di Bra (17:30, 20:00, 22:00), al Fiamma di Cuneo (15:15, 18:15, 21:15), ai Portici di Fossano (16:00, 18:30, 21:15), al Baretti di Mondovì (21:00), al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).
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Chi ha ucciso Woody Allen

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Irrational Man (Woody Allen, 2015)

– Woody Allen ha ucciso qualcuno. Impossibile stabilire chi e perché. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice passante che non doveva essere in un certo posto proprio in quel momento. Woody Allen ha pagato un sicario, oppure lo ha ucciso con le sue mani: e il rimorso lo tormenta da allora - ma non si costituirà mai. Però ce lo sta dicendo da più di vent'anni - Crimini e misfatti è del 1989, e a ben vedere sotto il travestimento è una confessione fatta e finita. Da allora è tornato sullo stesso soggetto quante volte? Settembre, Pallottole su Broadway, Match Point, Cassandra's Dream, e adesso Irrational Man: tutte variazioni sul tema. Come si fa a non notare l'ossessione, come si fa a non sentire il muto grido di dolore sepolto sotto il rassicurante tappeto di fotografia elegante e swing d'epoca? Woody Allen è un assassino. Oppure:

– Woody Allen è morto. Impossibile stabilire chi è stato e quando. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice psicopatico che lo ha trovato in un certo posto nel momento sbagliato. Woody Allen ci ha lasciato da un pezzo, ma il piccolo carrozzone che ha messo assieme in più di quarant'anni di carriera, la sua piccola Disney per anziani, doveva in un qualche modo andare avanti. Un film all'anno, niente che il pubblico pagante non si aspetti già. All'inizio hanno usato qualche vecchio copione scartato. Poi hanno iniziato a scriverne di nuovi alla sua maniera. Ultimamente usano un software che riesce a simulare anche l'invecchiamento di Woody Allen, per cui per esempio il 'suo' ultimo film, Irrational Man, sembra veramente scritto da un ottuagenario molto preoccupato di farsi capire a spettatori altrettanto rintronati. Joaquin Phoenix è un insegnante di filosofia morale depresso e alcolizzato: lo si potrebbe indovinare dagli occhi disperati, dal pancino alcolico, ma anche dal fatto che tira continuamente fuori una fiaschetta di scotch (la offre anche alle studentesse in mezzo al campus), e dalla voce fuori campo che martella ogni due minuti. ERO DISPERATO. LA VITA NON AVEVA PIU' SENSO. INFATTI AVEVO VOGLIA DI MORIRE. DA UN PO' ERO ANCHE IMPOTENTE. VI AVEVO GIA' DETTO CHE ERO MOLTO DEPRESSO? Così per un'ora. Nel frattempo Emma Stone si innamora di lui. Lo si capisce dal modo in cui sgrana gli occhioni, dal fatto che accetti di passeggiare con lui in mezzo al campus, che lo inviti alle feste dei compagni e a casa dei genitori,, dalle scuse che racconta al suo ragazzo ufficiale, nonché da dialoghi del tipo OH PROFESSORE HAI CAPITO CHE MI SONO INNAMORATA DI TE? ORA TI FICCO LA LINGUA IN BOCCA FAMMI UN CENNO SE TI ARRIVA IL MESSAGGIO. Woody Allen, insomma, è morto. Questa almeno è la mia ipotesi preferita, ma ce ne sono anche altre.

– Woody Allen sta benone, (continuava su +eventi!) rilascia interviste lucidissime. Ultimamente ha compiuto 80 anni e un sacco di gente su facebook si è divertita a stilare la sua lista dei cinque film migliori. È un gioco che funziona con Allen meglio che con qualsiasi altro regista, perché chiunque ne sappia almeno un po', senza sforzo riesce a ricordarsi una ventina di titoli. Tanta prolificità ha anche il suo lato oscuro, e infatti a un certo punto per il puro istinto di distinguermi ho pubblicato la classifica dei film di Allen che mi erano piaciuti di meno. Se ci riflettete, ha molto più senso, perché nessuno ci ha fatto vedere tanti film mediocri come Woody Allen – qualsiasi altro autore, dopo un paio di mosse false lo avremmo abbandonato. Invece da lui siamo tornati anno dopo anno, sempre sperando di assistere al miracolo di un nuovo Harry a Pezzi, un nuovo Zelig. E ci siamo sciroppati Another Woman, Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight, senza neanche lamentarci troppo.
In questo senso Woody Allen è un po' come Bob Dylan, che oltre ai suoi capolavori, è riuscito a venderci una discreta manciata di dischi talmente scadenti che nessun altro artista ci avrebbe potuto propinare senza perdere la sua credibilità: dischi così orrendi che li ricordiamo con affetto. Alla fine chi ascolta Dylan, o chi guarda un film di Allen, ha soprattutto voglia di ritrovare un vecchio amico – non importa quanto sia fuori forma. Woody Allen magari è in perfetta forma, ma a questo punto si preoccupa dell'inevitabile invecchiamento del suo pubblico. Si chiederà: ma che razza di rincoglioniti tornano in sala a vedere qualunque cosa io faccia? Meglio non rischiare, meglio l'usato sicuro: ancora Dostoevskij, ancora un Raskolnikov (pazienza se rischia di sembrare quel tipo di studentessa di un suo film, che di ogni autore conosceva solo una citazione a effetto). Il protagonista deve essere un misantropo disilluso. Forse è meglio ribadirlo ogni due o tre minuti, metti che qualcuno in sala si addormenti – ehi non è uno scherzo, fare film di Woody Allen è una scienza, magari si sono addormentati durante un focus group.
Il protagonista deve commettere un omicidio, perché da sempre questo è l'unico modo che hanno i personaggi di Allen di votarsi al Male – omicidi e al limite le corna, ma queste ultime da un pezzo sono state derubricate a peccato veniale. Tutto il resto non conta - ad esempio farsi corteggiare da una studentessa davanti a colleghi e compagni di lei, per Allen è un comportamento normalissimo, accettato anche da superiori e genitori: ed è anche l'indizio più forte del fatto che ci troviamo ancora nell'universo mentale dell'autore e vecchio satiro Woody Allen, e non in quello di un software in grado di produrre intrecci verosimili.
Come in Pallottole su Broadway ci dev'essere un artista irresponsabile, irrazionale, assassino, e un piccoloborghese che lo ammira ma non potrà seguirlo per la sua strada: non si tratta di una vera e propria scelta, semplicemente la via del Male (ma anche dell'Arte) non è per lui/lei. Rispetto a dieci o vent'anni fa, la novità di rilievo non è tanto la colonna sonora più blues, ma l'atteggiamento sempre più didascalico, ai limiti dell'autoparodia. La trama che occupava una mezz'oretta di Crimini e Misfatti è dilatata sui novanta minuti. Allen può lavorare con gli attori migliori sulla piazza, e quello che vuole da loro ormai è che vestano una specie di costume kabuki e continuino a ripetere al centro della scena: SONO DISPERATO. VOGLIO MORIRE. TUTTO È ASSURDO. MA SE AMMAZZO QUALCUNO LA MIA VITA CAMBIA. AMMAZZO QUALCUNO. ECCO LA MIA VITA È CAMBIATA. SONO FELICE. HO FAME, RIESCO ANCHE A SCOPARE. Il risultato è un prodotto che oltre a funzionare in sala – ma in sala ormai ci andremmo in ogni caso – avrà un senso anche sul digitale terrestre tra un annetto o due, al pomeriggio, mentre stiriamo o diamo la polvere: quelle fiction che riesci a seguire anche se guardi una scena ogni tre.

Woody Allen a ottant'anni ci conosce meglio di noi stessi: ha capito che cominciamo a perdere colpi e si sta adeguando. Continua a macinare film che nessun altro sa fare, e che forse a nessun altro perdoneremmo. D'altro canto prima o poi ci regalerà qualche altra perla, anche solo un Whatever Works. Nel frattempo Irrational Man è al Cityplex di Alba (21:10), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:10, 17:20, 20:10, 22:20), al Baretti di Mondovì (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (22:30). Prego notare che è alla terza settimana di permanenza in sala; ed è quella tra Natale e Capodanno. Whatever works.
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Woody Allen e la fabbrichetta dei sogni

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Magic in the Moonlight (Woody Allen, 2014).

Ho una telepatia: qualcuno in sala si è già addormentato.
Dietro le quinte, l'illusionista è esausto. Ha montato quasi cinquanta spettacoli in quasi cinquant'anni, ha calcato le scene di New York Londra Parigi Roma San Francisco, e ancora non capisce cosa si aspettino da lui quando si alza il sipario. Trucchi nuovi non ne ha da vent'anni. Quelli vecchi li ha riciclati tutti cento volte, o mille, a un certo punto ha perso il conto. Più tardi ha smesso di preoccuparsene. Più tardi ha smesso anche di fingere di preoccuparsene. Ciononostante la gente continua a venire, quindi maledizione, toccherà inventarsi qualcosa anche quest'anno. Ma di basso profilo, per carità! Qualcosa che non stupisca nessuno - una commedia, è chiaro.

Ormai ogni volta che gli scappa di fare qualcosa di vagamente diverso, qualcosa che desti un interesse diverso dal solito, capitano guai. Si fa viva un'ex moglie o un'ex figlia, lo accusano di cose per le quali non è stato processato, anzi nemmeno indagato ufficialmente - la vita non è già difficile di per sé? Ci vogliamo davvero aggiungere questi periodici surplus di merda? Commedia, commedia, per carità. Qualche vecchio canovaccio, controlliamo se non l'abbiamo già usato negli ultimi dieci anni? Ma no, chissenefrega (Whatever Works è del 2009, ma la sceneggiatura è molto più antica). Ci mettiamo un prestigiatore, da quand'è che non usiamo un prestigiatore? Dal 2006? Neanche male. Del resto vorrei vedere voi, un film all'anno da quasi cinquant'anni. Cosa ci venite a fare? Cosa vi aspettate ancora, a parte lo spettacolo di un vecchio zio che invecchia in tempo reale - lo trovate rassicurante? L'illusionista non lo trova così rassicurante.

Anche lui, che credete, vi sta guardando ingrigire. Siete quelli che una volta venivate a farvi due risate raffinate. Gli stessi che da un certo punto in poi hanno cominciato ad avere pretese esagerate, a pomparsi con Bergman, con Antonioni, a citare MacLuhan in coda al botteghino. Quelli che negli anni Ottanta cominciavano a sentirsi stretta la pelle che indossavano e fantasticavano di cambiarla, e di uccidere l'amante molesta, quelli che negli anni Novanta si sarebbero portati le puttane ai funerali, quelli che da un certo punto in poi si sono stancati anche di far finta di non essersi stancati di far finta. A gente come voi va somministrato un film tranquillo; se lo ambienta nei soliti anni Venti sembrerà un Poirot televisivo, da subire sonnecchiando sul divano. Macchine d'epoca, Jazz di New Orleans, illusionismo e spiritismo - vi fa secchi in sala dopo una mezz'ora, scommettiamo? Se è proprio quello che volete. Ed è quello che volete, evidentemente. (Continua su +eventi...)

Sennò potreste anche andare a vedere qualcos'altro, voglio dire - guardatevi intorno. Draghi, astronavi, ogni ben di dio. Pensate solo all'Italia. Una volta in Italia lo programmavano a settembre; usavano Venezia come trampolino. Da un po' di tempo in qua lo piazzano a Natale. Il periodo più complicato, una ressa incredibile, ovunque cartoni 3d e trilogie, quadrilogie, dinosauri, buchi neri, e in mezzo a tutto questo l'illusionista si piglia centinaia di sale e se le porta tranquillo fino a gennaio. Altro che cinema di nicchia. L'illusionista ormai è un'industria, una delle poche che regge la crisi. Un brand rassicurante, attori di primo livello sempre disposti a decurtarsi il cachet, bella fotografia, scenari da cartolina - un'idea di cinema fuori del tempo, che è probabilmente quel cinema che vorremmo tutti che esistesse per prenderlo in giro, per preferire film diversi. Pensa solo se ci fossero sette sale in città e sei film così, che piacere ci darebbe poter scegliere l'unico disco volante, l'unico dinosauro. Ma è l'esatto contrario, il dinosauro è lui.

Ed è esausto. Tutto il peso del cinema mainstream sulle spalle, ma chi l'ha mai voluto? Pensare che faceva il comico, si buttò nel cinema perché in tv gli tagliavano gli sketch, e adesso guarda cos'è diventato. Un'industria, un brand, un film all'anno, un sacco di posti di lavoro, una fabbrichetta di sogni che in un qualche modo deve andare avanti anche se lui non ne può più. Probabilmente continueranno anche quando se ne sarà andato, una specie di Walt Disney per anziani. Troveranno qualche altro vecchio disco da usare come sigla, e scriveranno "Da un'idea di Woody Allen" anche se lui le idee le ha finite da un pezzo. Magari è già successo. Magari ha smesso da dieci anni e non lo sappiamo.

Ma più probabilmente no. Perché forse anche questa stanchezza è un'illusione coltivata ad arte, e dietro le quinte l'Illusionista è soltanto fiero di sé. Distilla disperazione da cinquant'anni, e guardate cosa ne ha fatto. Quasi cinquanta film, una dozzina di capolavori, niente male per un depresso cronico. Il lavoro gli ha salvato la vita, che altro dovrebbe farci con la vita che gli è rimasta se non scrivere ancora un altro film; dirigere altri attori, innamorarsi di altre attrici. Tra due minuti si va in scena: Emma Stone sgranerà i suoi occhioni ittici e l'universo avrà di nuovo un senso per qualche mese, fino al prossimo trucco - Quale? Uno qualsiasi andrà bene, basta che funzioni. E anche se non funziona, bah, chissenefrega.

Magic in the Moonlight, l'ultimo dimenticabile film di Woody Allen, questa settimana a Cuneo si prende la bellezza di sei sale - di cui cinque in provincia. Lo troviamo al Cityplex di Alba, al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo, al Vittoria di Bra, al Fiamma di Cuneo, ai Portici di Fossano e al Cinecittà di Savigliano. Sogni d'oro.
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Tram Desiderio, ultima fermata San Francisco

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Blue Jasmine (Woody Allen, 2013)

Ieri. 
Cosa succederà quando diventeremo poveri? Non dico che non ce lo meritiamo. Ma poveri davvero, capisci, come quelli che viaggiano in classe economica? Quelli che hanno case brutte piene di mobili da quattro soldi tanto la maggior parte della giornata la passano fuori a... lavorare? Tu ce la faresti a lavorare? Dico sul serio. Lo sai usare un computer? Io non so neanche come si accende, dovrei fare un corso.

Non si potrebbe semplicemente trovare qualche uomo ricco e bello con una casa vuota da arredare, e ricominciare da capo?

Guardando Blue Jasmine a un certo punto ho avuto un brivido; non mi capitava da tantissimi film di Woody Allen (e io amo guardare i suoi film). Siamo a una festa un po' "mista", un ricevimento vagamente inverosimile, e Jasmine si annoia. A un certo punto entra in una sala vuota e incontra Peter Sarsgaard. Nessuno li vede. Escono su un terrazzo assolutamente sgombro. La musica insulsa all'improvviso non si sente più. Sarsgaard apre la bocca e in due minuti ha già riconosciuto le Roger Vivier ai piedi di Jasmine e si è accreditato come diplomatico in carriera, vedovo, con una casa da arredare e un futuro in politica, e io ho avuto un brivido: allucinazione, Woody Allen ci sta mostrando un'allucinazione. Siccome in tutte le scene in cui non sta con Sarsgaard la Blanchett sembra una matta, l'idea appare più che sensata. Una di quelle cose di cui poi ti vanti con gli amici, eh, ma io l'avevo capito subito che Jasmine stava sbroccando... no. Mi sbagliavo. Nessuna allucinazione. Jasmine incontra davvero il principe azzurro a una festa.

Oggi. 


È uno snodo abbastanza improbabile, ma Allen non scrive film realistici, forse non lo ha mai fatto. Puoi anche assegnargli un tema di attualità (lo scandalo dei Madoff), e dopo un po' ti accorgi che invece di approfittarne per raccontarci un po' di presente, è andato a ripescare i classici, il Tram chiamato Desiderio. Ai tempi di Match Point c'era chi ne magnificava la capacità di tuffarsi nella amoralità contemporanea, senza badare al fatto che si stava semplicemente ricucinando un buon vecchio Dostoevskij. Ad Allen il presente non interessa, a questo punto sarebbe ingiusto fargliene una colpa. Anche se non ha quasi mai la volontà o la necessità di ambientare i suoi film in un mondo che non sia simile al nostro (sempre però visto un po' da lontano, senza riferimenti cronologici precisi), Allen più che un realista rimane un autore tragico che, dopo aver messo in scena per vent'anni le sue riflessioni sul destino dei mortali su uno sfondo di grattacieli, ultimamente sta provando sfondi diversi. Ma la tragedia resta sempre la solita (Jasmine è condannata già prima che si alzi il sipario) e lo sfondo è soltanto uno sfondo. Così è comprensibile - anche se un po' triste - che negli ultimi anni i suoi impresari cerchino di attirare l'attenzione reclamizzando soprattutto l'originalità dei fondali: Woody does London! Paris! Rome! San Francisco!  Un giorno lo ritroveremo a Hong Kong, magari farà l'Edipo Re con un sottofondo ragtime e ci sembrerà una cosa incredibile e nuovissima (continua su +eventi!)

Domani.
Una volta ho letto che gli abitanti di Hong Kong hanno un problema con le distanze. Nascendo e crescendo in una città di grattacieli, davanti agli spazi vuoti si trovano in difficoltà. Probabilmente è una sciocchezza, e comunque Woody Allen è nato dall'altra parte del mondo, a Brooklyn; e ha vissuto gran parte della sua vita a Manhattan. Anche se negli ultimi anni ha dimostrato che può ambientare i suoi film altrove, qualche problema con gli spazi vuoti forse ce l'ha. Magari è più facile accorgersene in California che a Parigi o Londra o Roma. Tutti ci ricordiamo quella vecchia scena in cui tenta di spostarsi con un'automobile a Los Angeles; la più grande prova d'amore per Annie Hall, ormai fuori tempo massimo. Le auto nei suoi film sono spesso armi improprie, quasi mai mezzi di trasporto affidabili. Una delle premesse dei soggetti alleniani è che i personaggi possano incontrarsi per caso, attraversando la strada: devono dunque abitare tutti nello stesso grande quartiere. La possiamo prendere come una convenzione teatrale o come una forma di manhattania che non si nota veramente finché Allen non pretende di ambientare una tragedia nella West Coast, senza derogare alla sua aristotelica unità di luogo. A un certo punto Jasmine costringe il principe azzurro ad accostare e mollarla tutta sola sullo sfondo della Baia. Nella scena seguente la troviamo in un negozio a Oakland. Avrà preso l'autobus? Un taxi? Ci piace immaginarla mentre scarpina verso la meta, ma solo il ponte è lungo sette chilometri. Nella scena successiva è a casa di sua sorella, a San Francisco, comprensibilmente un po' provata. Il mondo fuori Manhattan è una prateria ostile e non misurabile, che non si ha più tempo per cercare di capire.

Così come non riesce a raffigurarsi uno spazio più vasto della metropoli, Allen sembra in difficoltà anche quando prova a ritrarre una classe media off Manhattan. Per risolvere il problema ricorre a un espediente notevole: ritaglia un personaggio da un altro film (la Poppy di Happy-Go-Lucky di Leigh, Sally Hawkins), e la piazza sul set: forza, scuoti i braccialetti, fa' qualcosa da ceto medio: la maestra d'asilo? E perché non la commessa in un supermercato. Avrai senz'altro un fidanzato unto di grasso che guarda la boxe e mangia la pizza dal cartone. Anche Baldwin nei panni del finanziere maneggione-farfallone sembra arrivare precotto da un altro set, ma probabilmente è quel che capita quando sei Woody Allen e tutti gli attori del mondo sono disposti a lavorare a parametro zero per te: che gli attori siano forse più perfetti del necessario. Compresa la Blanchett, che alla ricerca dell'Oscar grosso ci dà una classica interpretazione alleniana, nel solco del Branagh di Celebrity: balbetta, ostenta nevrosi, straparla. Ne risulta uno dei ritratti più impietosi che un regista abbia mai fatto di sé stesso: Woody Allen calato nelle forme e nei panni di un'arrampicatrice sociale rovinata, terrorizzata dallo spettro della povertà, incapace di accettare che il tempo delle mance generose e dell'idromassaggio è finito. Blue moon era la nostra canzone. Non si capisce quanti anni abbia realmente, sembra una Stella scappata da qualche filodrammatica con gli abiti di scena. Per il viaggio che l'aspetta non c'è una Louis Vuitton abbastanza solida. E gli sconosciuti hanno smesso di essere gentili da un pezzo.

Blue Jasmine è dovunque: al Fiamma di Cuneo (15:10, 18:00, 21:10); al Cityplex di Alba (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). E dire che una volta qui era tutto cinepanettone.
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fate largo all'avanguardia

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Amami, odiami; stringimi, stammi lontano
"Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri". Giovanni 13, 34

Che cos’è, l’avanguardia, esattamente? E a cosa serve?

Per alcuni si tratta di forare la quarta parete e cambiare il mondo. Non è mai stato facile, e da qualche decennio è anche demodé. Ma la chiameremo ancora Ipotesi Progressiva.
Per altri si tratta sempre e solo di ego. Sindrome d’onnipotenza dell’artista, che fa esplodere qualunque testo o partitura. Si urla, si balla, si tira cacca e sangue sul pubblico, che adora e applaude. In un certo senso si torna alla preistoria, quando l’artista era uno sciamano (e un ciarlatano, naturalmente). Chiamiamola Ipotesi Regressiva.

E poi c’è Lars Von Trier. Quando d’inverno cala Lars Von Trier, si sente in lontananza un coro, che bisbiglia sommesso e petulante, siamaosiodiasiamaosiodiasiamaosiodia. Balbettanti cinefili, marmaglia borghese, puah. Si ama? Si odia? Ma chi se ne frega? Mica dobbiamo portarcelo a letto, Lars.
Noi abbiamo domande più interessanti, noi. Noi siamo il tribunale della rivoluzione, e ci domandiamo: Von Trier è Progressivo o Regressivo? L’unica domanda interessante, quella che fa scattare la molla della ghigliottina. Il resto è brusio da borsette, per l’appunto.

Mi piace immaginare che la stessa domanda se la faccia lui. Quel tipo di domande che si fanno i nordici, no? Insomma, ci sono o ci faccio? Sono un rivoluzionario o un ciarlatano? Può darsi che io stia sacrificando l’estetica al messaggio: ma questo mio sacrificio non è forse esso stesso un messaggio, che dice “quanto sono figo?”
Ma sono davvero così figo? Tecnicamente, non valgo poi molto. Agli attori do istruzioni a caso, quando uso l’handycam mi trema la spalla, se affido i movimenti di macchina a un computer nessuno noterà la differenza. Si aggiunga che odio tutti, in particolare gli attori: egotici dannati, non ci parlo volentieri. Ma vorrei che mi amassero. Sì, vorrei che mi considerassero un loro amico. Però ho difficoltà a starci insieme. Nella stessa stanza.

Il Grande Capo è un viaggio nel cervello di Von Trier, dove fa parecchio freddo, ma ci si diverte. Matte risate, sul serio. Il protagonista dovrebbe essere Kristoffer.
Kristoffer è un artista, un attore d’avanguardia, un ciarlatano. Ama sé stesso, le sue teorie e le sue messe in scena astruse. In mancanza di scritture accetta di impersonare il Grande Capo di una dot com (tornano di moda, anche se tra un po' gli troveremo un nome diverso). È convinto di trovarsi davanti a un vile canovaccio da nobilitare con la sua arte. Invece farà l’incontro più importante della sua vita artistica: Ravn.

Ravn assomiglia al gangster di Pallottole su Broadway: è il vero Grande Artista, quello istintivo, che non sa nulla di teorie. Parte integrante del suo genio è l’assoluta amoralità. Non c’è bene né male, solo l’arte per l’arte. L’arte di Ravn è la sua impresa, la tecnica che padroneggia al meglio è la stesura dei contratti. Senza sborsare un solo soldo, Ravn ha costruito e dirige un’impresa di successo. Per difendersi dalle decisioni impopolari che prende continuamente, si è inventato un Grande Capo fittizio, di cui lui sarebbe soltanto un esecutore, incaricato di indorare le pillole. Più il Grande Capo è arbitrario e dogmatico, più Ravn si accredita come mascotte dei dipendenti. Perché dirigere l’impresa non gli basta: sopra ogni cosa, Ravn vorrebbe farsi amare.

In quell’orsacchiotto c’è una cosa che forse non avevamo ancora capito di Lars: il principio “o-lo-ami-o-lo-odi” non è un dilemma, ma una strategia. Devi odiare il dogmatico Von Trier per amare il rivoluzionario Lars. Ogni regola serve ad essere elusa, questo forse lo avevamo capito già: quello che non avevamo capito è quanto fosse importante per il regista agorafobico l’essere amato, l’essere abbracciato. Un film di danesi che si abbracciano e cercano di volersi bene è qualcosa che val la pena di vedere – anche perché c’è sempre un nord del nord: in questo caso il gelido cipiglio dell’acquirente islandese che esecra i sentimentalismi dei terroni di Copenhagen.

Prima di incontrare Ravn, Kristoffer non aveva idea di cosa fosse veramente un artista: un mangiatore d’uomini e donne, un killer. “Il testo è sacro, per me”, diceva a Ravn, all’inizio. “Anche se l’avesse scritto Hitler”. Sono le cose che si dicono gli avanguardisti, tra le quinte. Ma se fosse la vera vita? Cosa succede quando scopri che il tuo testo l’ha scritto davvero Hitler? Un dittatore insensibile, pronto a mandare la sua impresa al macello, travestito per di più da simpatico orsacchiotto? A quel punto Kristoffer ha un soprassalto: per un attimo sembra voler riscattare la sua mediocrità e il suo egotismo. C’è la possibilità di forare davvero la quarta parete: mandare a monte la recita, salvare l’azienda e i suoi dipendenti. Per ottenere un risultato, Kristoffer è persino disposto a sacrificare le sue teorie e ricorrere all'arma segreta: quel teatro borghese tanto odiato, con la sua untuosa ed esecrabile capacità di suscitare emozioni. E in quel momento siamo tutti con lui. È bravo, è commovente, il suo ego è finalmente funzionale al testo che si è scelto. È troppo bello per finire così.
E infatti non finirà così. L’ego è una brutta bestia: ti segue ovunque vai. È lui il nostro Grande Capo.

Vale la pena aggiungere che il film fa molto ridere; perlomeno ha fatto ridere me, molto più di Commediasexi. A questo punto io credo di amare Von Trier, anche se non vorrei mai stare in una stanza con lui. E con nessuno di voi. Però vorrei che mi amaste di più, sento che non mi amate quanto merito.

Idee più chiare su:
- Secondavisione ("o si ama o si odia").
- Marco Luceri ("l’amato-odiato furetto danese").
- Giulio Sangiorgio e Mauro F. Giorgio (sul fondo compaiono giochi di parole in greco, Derrida Deleuze e Guattari; Debord si era dato malato).
- Fenice ("Iniziamo dicendo che le scuole di pensiero sono due e ben nette: Lars von Trier si odia o si ama".
- "Un regista che è riuscito da sempre a dividere critica e pubblico: o lo si ama, o lo si odia!" (Cineblog)
- "Lars von Trier, o lo si ama o lo si odia! Sembra proprio che vie di mezzo non esistano" (Cinefile.biz su Manderlay)
- Sicuramente Dogville ha diviso gli spettatori; è comunque un film che difficilmente si può considerare godibile, e quindi o lo si ama o lo si odia.
- Potrei andare avanti ma è troppo facile.
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- troppo avanti per voi buzzurri

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Scoop!

Solo per informarvi che questa settimana dovrebbe uscire l'ultimo film di Woody Allen, e che la recensione su Leonardo è già pronta da un mese e mezzo.

In America (sapete, io sono stato in America) ho visto un altro piccolo film assai bello e acclamato dalla critica, ma non credo che arriverà mai qua da noi. Si chiama Half Nelson e racconta di un prof di scuola media che ha due problemi. Il primo problema è una lieve dipendenza dal crack. Il secondo è che le sue lezioni di Storia ("Che cos'è la Storia? La Storia è... conflitto! Bianco nero, dolce salato, continuate voi") sono patetiche. Eppure i suoi studenti (tutti afroamericani di ghetto, ovvio, mentre lui è radicalscic da generazioni), invece di mandarlo troppo giustamente a cagare lo fissano con occhi sbarrati. Probabilmente si fanno pure loro.

Oppure forse no. Insomma, sono tonrato in Italia, sono entrato in una classe e ho provato a chiedere: Cos'è la geografia? La geografia è: fare disegni della terra! Fatemi dei disegni della terra, su. Però, come fan schifo i vostri disegni! Ma anche i primi disegni della terra facevano schifo! E così via.
Vediamo come va - ma probabilmente non è la stessa cosa, senza crack.
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- scoop

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(Che io sappia, in Italia Scoop, l'ultimo film di Woody Allen, non è ancora uscito. Io l'ho visto, e in questo pezzo riesco a parlarne senza spiegarvi esattamente come va a finire. Credo).


Siete un pubblico speciale, e vi amo.


Allen è un grande cineasta che sta invecchiando. Non stiamo neanche a discutere. Ha fatto molti film: alcuni belli, altri sopravalutati. In ogni caso ha finito di farli più o meno dieci anni fa. Da dieci anni non ha probabilmente nulla da dire: sta solo invecchiando.

Il punto è che sta invecchiando bene: che un suo film, magari bruttino, magari con poco o nulla da dire, regge comunque il confronto con quello che passa in cinema, e in tv. I suoi dilemmi morali possono suonare banali, ma almeno sono dilemmi, almeno sono morali. Allen può essere noioso, ma non è che in giro ci sia roba molto più eccitante; può essere vecchio, ma non è che i giovani si stiano dando molto da fare. Senza parlare dei vecchi come lui. Anzi parliamone. Prendiamo un Altman: ci sarà un motivo per cui Altman passa in estate, praticamente inosservato, e Allen si conserva per l’autunno, quando la gente torna al cinema? Prendiamo un qualsiasi autore dell’età di Allen: ha ancora cose da dire? Riesce a dirle meglio di lui?

È inutile cercare di difendere i suoi ultimi film. Inutile anche arrampicarsi sulla suo presunto risorgimento londinese - come se Allen riuscisse davvero a descrivere le città e le campagne in cui ambienta le sue operette. La questione è molto meno artistica e molto più umana: c’è chi colleziona modellini, chi scrive un libro, chi tiene un blog. Quest’uomo sta cercando semplicemente di mettere un film all’anno tra sé e la morte, perché è quello che ha sempre fatto, perché è quello che sa fare meglio. A lungo andare, è chiaro, il pubblico pagante diventa sempre più una variabile indipendente e irrilevante. La buona notizia (per noi? Per lui?) è che quel giorno è ancora lontano. L’appuntamento annuale col film di Allen è ancora piacevole – in mancanza di meglio, certo. Si vive in mancanza di meglio.

Io la vedo così: nei grandi film della sua maturità (Io e Annie, su tutti), Allen ha tratteggiato, con ironia, l’autoritratto di uno sfigato immaturo. Non importa che questo ritratto fosse abbastanza impietoso e a tratti persino tragico: non importa perché la generazione di Allen ci ha riso sopra, trasformandolo in una macchietta indulgente, e prendendolo ad esempio per procrastinare a mai la propria maturità. Bei film, pessimo risultato.

Oggi però succede l’inverso. Se coi suoi migliori film è stato una pessima guida per una generazione di immaturi boccaloni, coi suoi peggiori film ci sta dando ottime lezioni su un problema che ci interessa tutti: come invecchiare decentemente. Qui non si tratta, insomma, di avvertire che Scoop è il suo miglior film dai tempi di. Potrebbe anche essere. E chi se ne frega. Qui si tratta solo di apprezzare il modo in cui Allen sta invecchiando in Scoop. Fotografarsi è sempre difficile, e fotografarsi da vecchi lo è ancora di più. Bene, nessuno che io ricordi ci è riuscito con la stessa grazia di Allen in Scoop.

Per prima cosa, è uno sfigato. Un ciarlatano mediocre. Ha qualche illuminazione, ma non riesce a servirsene. Niente famiglia, niente figli, nulla gli sopravvivrà. Entra nella storia controvoglia, ne esce per manifesta incapacità, nel più ridicolo e prevedibile dei modi. Ma per un’ora, lui e Scarlett si sono improvvisati padre e figlia, divertendosi un mondo. E divertirsi è tutto. Stare coi giovani. Cercare di salvarli. L’importante è non riuscirci.

Quindici anni fa Allen era ancora un signore di mezza età che cercava di riscattare il suo matrimonio salvando la Keaton da un diabolico assassino, nel Misterioso Omicidio a Manhattan. E non importa quante strizzate d’occhio, citazioni e understatement ci fossero in quella scena finale: in fin dei conti, Diana era pur sempre la donna salvata che diceva al suo eroe: ti amo. (Gratta gratta, le trame di Allen sono reazionarie, chi lo ha detto? Io, credo). Una scena così, in Scoop, avrebbe potuto esserci. Ma non c’è. Allen non è il vecchietto idiota che cerca di correre la maratona a sessant’anni. Per salvare un amore, una famiglia, una splendida ragazza, occorre cuore ma anche fiato, e non ne ha più: quel che è bello è che se ne rende conto. Scarlett dovrà farcela da sola.

E Allen? Vedi la scena finale: Allen continuerà a recitare la stessa scena per l’eternità. I soliti mediocri giochi di prestigio, il solito monologo sconnesso in cui garantisce di amare l’ennesimo pubblico sconosciuto ed estraneo, di amarlo sul serio: le cose cretine che si dicono a fine serata, quando si avrebbe voglia di andare via ma ancora non si può, e pur non amando veramente nessuno non si vuole essere scortesi. Allen non è mai stato scortese. Farà ancora molti film bruttini, facendo il possibile per non annoiare, per non strafare, per dare scena a belle donne (e begli uomini, direi). E noi li andremo a vedere, perché Fellini è morto, Kubrick è morto, e Spielberg non può farne più di due a stagione. E i giovani si facciano avanti, non è certo Allen a impedirglielo.
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Nel campo da tennis del bene e del male

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(appunti su Match Point) (contiene spoiler).

Allen-Moravia 
Qualcuno sicuramente avrà già provato a paragonarli. Entrambi stacanovisti (un libro all'anno – un film all'anno), stuccano il pubblico tornando ossessivamente sugli stessi temi. Entrambi, visti in prospettiva, sgomentano. Dunque è possibile passare un'esistenza intera a descrivere lo stesso problema senza risolverlo mai. Sì, è possibile, anzi è questo il lavoro quotidiano dello scrittore o del cineasta. Per le soluzioni, rivolgersi all'autorità trascendente. Allen è noioso e inconcludente, Moravia è noioso e inconcludente, la vita è noiosa e inconcludente. Consigli ai giovani scrittori? cambiare mestiere. Anche ammesso di arrivare, dopo un lungo apprendistato, a una completa padronanza dei propri strumenti, il rischio è trovarsi davanti a un impiego più noioso del brokeraggio finanziario. Una pagina al giorno. Un film all'anno. Sempre i soliti problemi. Al limite, c'è il tennis. 

L'Europa è sopra le righe 
Allen è un regista americano che fa film per il mercato europeo. E (se ho ben capito come va a finire Hollywood Ending) è il primo a meravigliarsene. Non che lui non conosca e non ami il cinema europeo. Ma i suoi interpreti? Gli attori americani sono felici di lavorare con Allen (sottocosto), perché le probabilità di conseguire una nomination all'Oscar sono curiosamente alte. Capita spesso, però, di vederli recitare sopra le righe. Ansia di strafare? O fraintendimento culturale? È come se l'americano, sapendo di lavorare a un prodotto d'esportazione, si sentisse obbligato a fare qualcosa di diverso. Mossettine, ammiccamenti… "Ho bevuto troppo", dice la Johansson al futuro cognato. Sembra effettivamente a un passo dal delirium tremens. In realtà noi europei preferiamo una recitazione più sobria, al limite legnosa, proprio come ce la passa Hollywood – ma questo è il punto: forse a Hollywood non lo sanno. Hanno una loro idea di Europa, smorfie e mossettine. Teatrale, in una parola. L'Europa è il continente dove si va a teatro.

Contemporaneo 
Se non si evolve mai (e da un pezzo ha smesso di arrischiare esperimenti), almeno Allen invecchia. Con molta onestà, va detto. Negli anni Novanta il suo protagonista preferito era il vegliardo svitato (su tutti, Deconstructing Harry). Un Dormiglione sempre più anziano e disperato. Dopo qualche tentativo disperato di rianimarlo, facendogli indossare panni di gangster o detective, da qualche anno a questa parte il vecchietto ha definitivamente ceduto lo spazio a una nuova generazione – alla quale non ha nulla da insegnare, come è stato messo in chiaro in Anything Else. Si tratta semplicemente di un passaggio di consegne: i nuovi arrivati vivranno, stanno già vivendo, i problemi che tormentavano il vecchietto (esiste il Bene e il Male, perché mi piace la ragazza del mio amico, eccetera). Ma naturalmente li vivranno a modo loro. Per esempio: in Match Point non c'è un minimo accenno alla psicoanalisi. Niente. Negli anni Novanta i lettini erano ancora onnipresenti nelle sceneggiature alleniane. Stavano sullo sfondo, immarcescibili elementi di una natura eterna, come il ponte di Brooklyn e Central Park. I suoi personaggi andavano a consultarsi dall'analista come gli eroi omerici visitavano l'Ade: periodicamente, per informarsi sui propri problemi. Tanto che il lettino era qualche volta intercambiabile con lo studio di una maga (Brodway Danny Rose, Celebrity) e il risultato non cambiava. Ma adesso basta, l'analisi non c'è più. Usanza di una generazione andata. Il divano di Match Point si apre e contiene un letto: il trampolino di lancio dell'arrampicatore sociale. Per confidarsi basta una panchina in un parco e un amico tennista. Allen è un vecchio onesto, che continua a descrivere gli stessi problemi, ma almeno non ci annoia con le liturgie del passato. Vecchio, ma nostro contemporaneo. E dici poco. 

La fine del perdente 
In Crimini e Misfatti un uomo di successo deve far fuori l'amante chiacchierona. Qual è la differenza con Match Point? Che nel frattempo Allen si è chiamato fuori. Nei suoi film l'istanza morale è sempre affidata al buffone, al clown, al perdente (non dico una novità). È una tradizione che viene da lontano. Ma nel corso degli anni l'immagine del clown si precisa sempre di più. Spesso è un artista (di scarso successo), e un fallimento con le donne. In quel periodo Allen continuava ad accostare criminali 'naturali', che non si pongono problemi di coscienza (oppure smettono di porseli, come in Crimini e Misfatti, perché nessuna giustizia interviene a punirli) a simpatici perdenti che continuano a credere nel bene e nel male, ma che alla fine sono troppo deboli sia per l'uno che per l'altro. Quel che è peggio, è che non sono nemmeno grandi artisti, perché l'artista autentico per Allen è proprio il criminale naturale: il gangster di Pallottole su Broadway o il chitarrista di Accordi e Disaccordi (anche l'Harry-a-pezzi in fondo appartiene a questa famiglia di carogne istintive). Insomma, sul crepuscolo della sua produzione, Allen sembra aver concluso che il vero intoppo è lui. E si è cancellato. Ora la storia fila molto più liscia: non c'è più nessun intellettualoide a filosofeggiare di bene e di male e a consigliare libri e film. La storia fila talmente liscia che fa paura: la cultura non serve più a stimolare le coscienze (che non esistono). È puro entertainment, lusso e pacchianeria, senza soluzioni di continuità. La "Super-Traviata", la biblioteca di libri antichi, la Tate Modern (solo quadri brutti, sarà voluto?), i Diari della Motocicletta, Lloyd Webber. Non c'è niente che dia da pensare. Fa tutto parte della vita e "la vita è meravigliosa", dice la moglie di Chris, "voglio goderne ogni momento". Mi ha fatto venire in mente quel che diceva Diane Keaton nel Dormiglione: Il mondo è pieno di cose meravigliose. Perché deve esserci qualcosa che vien fuori a guastare tutto? C'è il globo, c'è il teleschermo e c'è l'orgasmatic!. Siamo già nel 2173. E ci annoiamo parecchio (da questa parte dello schermo, almeno). Cavalli, tiro al piattello, libri pregiati, Lloyd Webber, brutti quadri… Perché deve esserci qualcosa che vien fuori a guastare tutto? 

L'arrampicatore 
Perché Chris Wilton legge Dostoevskij? Solo per allenarsi inconsciamente ad ammazzare una vecchietta? Ma Wilton non è Raskolnikov. Non si fa nessuna illusione sulla moralità del proprio agire. Il suo vero romanzo è il Rosso e il Nero. Wilton si fa broker finanziario come Julien Sorel si fa prete – e ha lo stesso problema: le donne. Desidera quelle sbagliate. E siccome non riesce a zittirle (specie oggi con tutta questa telefonia), deve ucciderle. Come Julien, Chris non è un ipocrita. È un arrampicatore autentico: chi ne ha conosciuti saprà cosa s'intende qui. Non fingono di provare interesse per l'opera o per Dostoevskij: ci credono davvero. Provano un rispetto sincero per ogni gradino che salgono e per ogni cosa che trovano lungo la salita. Per un'ora buona è impossibile capire se Wilton finga o sia sincero – se legga Dostoevskij perché gli piace o perché gli servirà a fare buona impressione sul padre della ragazza (per motivi analoghi Sorel leggeva Plutarco e ne discuteva coi suoi superiori). Sono vere entrambe le cose. Chris realizza il suo destino senza possedere una vera e propria coscienza, finché non commette l'irreparabile con la donna sbagliata. Da lì in poi avrà una coscienza. Cattiva (che è meglio di niente?) 

Nel campo da tennis del bene e del male 
Se l'Allen-attore non appesantisce più i dialoghi coi suoi dubbi e i suoi riferimenti, l'Allen-regista si attiene più che mai al suo tema preferito: il Dilemma Morale. Devo dire che questo è uno degli aspetti che capisco di meno. È che non abbiamo la stessa idea di Male. Per me il Male è qualcosa di corpuscolare, tenace, corrosivo: dovessi evocarlo, penserei alla polvere, o alla ruggine. Non è qualcosa che si sceglie, è un tarlo che s'insinua. Per Allen, invece, il Male è l'alternativa secca al Bene, e viceversa. Forse non c'era immagine migliore del gioco del tennis per descriverlo. Ogni giocata di una partita da tennis può andare a segno per te o contro di te. Non esistono terze possibilità, zone grigie. Lungo il film assistiamo a una serie di episodi in cui Chris può decidere se agire Bene o Male. In quei momenti l'esitazione è fatale, l'istinto è subdolo, e il pronunciamento è decisivo: da ogni bivio imbucato non si può tornare indietro. 

(7-6) (7-6) 
Dunque il film consiste in due set. Nel primo (un po' lento) è in gioco l'anima di Chris. È un uomo di umili natali e di talento, gentile e sincero, combattuto tra due donne che ama? O è una schifosa canaglia, disposta a mentire al mondo e a uccidere se necessario? Impossibile capirlo. In realtà è entrambe le cose, fino all'ultimo punto. Quando la moglie gli comunica che la vacanza in Grecia è saltata, Chris chiama Nola, poi mette giù. Di bugie ne ha già dette tante, ma questa è la decisiva. Da quel momento Chris non sarà più sincero con nessuno. Gioco, Partita. Il secondo set (molto più divertente, secondo me) riguarda il destino di Chris. Andrà in galera o la farà franca? La trovata del film è mostrarci subito il punto decisivo (l'anello che non cade nel Tamigi), senza spiegarci da che parte è caduta davvero la pallina: è un punto per Chris, o per la Giustizia? Andate a vedere il film. Ma se conoscete Allen, l'esito è scontato. 

La banalità del male (non in quel senso) 
Secondo Allen la differenza tra il Bene e il Male è nitida: unico intoppo, il Bene non sarà premiato e il Male non sarà punito. Dio, che evidentemente ha creato il campo da tennis, ha dato buca la premiazione. Tutto avviene dunque per caso nel migliore dei mondi qualsiasi. Ma cos'è, in pratica, il Male, per lui? Gira che ti gira, molto spesso si riduce al prurito di far sesso con la donna di qualcun altro (e in seguito alla necessità di farla fuori). Che sia Dostoevskij o Stendhal, comunque è Ottocento puro: adulteri e omicidi, omicidi e adulteri. Questo è un altro aspetto che fatico a mandar giù. Ho la sensazione che esistano in commercio forme di Male non solo più corpuscolari, ma anche più interessanti e seducenti. Cito a casaccio: la corruzione, l'inquinamento, la dipendenza (i personaggi di Match Point dicono Droga con la "D", come se fosse una voce enciclopedica), la speculazione… Sono cose alla portata di sceneggiatori anche molto meno dotati. Ieri per esempio ho visto In good company (ancora un po' e la Johansson mi darà la nausea, coraggio). Come film non mi è sembrato un granché: un'occasione mancatissima. Ma c'è comunque un'idea di Male molto più convincente e realistica del solito adulterio: l'incompetenza mascherata da marketing, la prevaricazione mascherata da sinergia, la svalutazione dell'etica del lavoro, la globalizzazione che si boicotta da sola… tutte idee che sono moneta comune, anche presso il pubblico tipico di un film di Allen, ma che Allen non ha mai messo in un film. Insomma, è probabile che esercitando la sua 'naturale' professione di broker, Chris si destreggi tra crimini e devastazioni molto più subdole di un semplice adulterio. Ma per il regista l'unico modo di raffigurare il Male è fargli ammazzare una vecchia e un'amante incinta con un fucile a canne mozze. Roba da Agatha Christie, in fin dei conti. E se Allen fosse, dopotutto, un autore reazionario?
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Woody e Natalia

A un certo punto del collegio docenti, il mio cellulare si è arreso. La carne è triste, ahimè! E io ho vinto a tutti i giochi. Non c'erano più palline da scoppiare, mattoni da sistemare, vermi da ingrassare, astronavi, macchinine, tris, poker, game over, basta, utente, mi arrendo, pietà.

Nell'aula magna la gente va e viene, parlando di libri di testo.
Il termometro dice: 34°.
Il calendario dice: "29 giugno 2004"
Il mio contratto dice: "scade il 30 giugno".
Una circolare ministeriale dice… non si capisce assolutamente cosa, ma il senso è che tra 3 mesi avrò meno punti in graduatoria di quanti ne ho adesso. Potrebbe sembrare strano, ma ormai non lo è più. Anche 12 mesi fa ne avevo più di adesso. Se insisto ancora in questa professione, finisce che mi tolgono la laurea, il diploma, la patente, la cresima e la comunione.

E adesso di cosa parlano. Di vacanze di Natale.
Natale, figurati.
Così ho spostato la sedia contro il muro, di modo da appoggiare la testa. Ora, se riesco a pensare a qualcosa di inutile, mi posso addormentare. Natale. Arrivarci, a Natale. Che uno fa per dire, ma sul serio: cosa farò, io, a Natale? Sarò infine insieme a te? Sarò ancora insieme a te? Starò bene? Starò male?

Di certezze ne ho pochine, e mi ci appendo come posso: so che d'estate farà caldo, ma a settembre verranno le prime piogge, e Woody Allen presenterà un film a Venezia, e Natalia Aspesi dirà che è il più riuscito degli ultimi dieci anni. E in ottobre io lo andrò a vedere. Quello lo so per certo. E basta, direi.

Non è tantissimo, ma almeno.
Zzz.
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